Un Minuto di Silenzio



Da questa mattina, le notizie a proposito di un naufragio che ha provocato la tragica morte di circa 700 persone hanno iniziato a diffondersi sui media. Una morte orribile, se solo si ha immaginazione a sufficienza per ricostruirla mentalmente, con i suoi scabrosi dettagli. Sono notizie brevi, parziali, un po’ confuse: poche frasi, pochi dettagli, nessuna spiegazione. Nonostante ciò la reazione all’accaduto è stata immensa, e tutti, o quasi tutti, dai soliti social-politici alla stereotipata casalinga di Vorghera, hanno sentito il bisogno di esprimere i propri sentimenti in merito a quanto successo. Sentimenti che, per quanto mi riguarda, dovrebbero spaziare dalla tristezza, alla rabbia, alla frustrazione o anche solo a un semplice e un po’ confuso mal di pancia. Eppure, ci è toccato leggere ben altro.

Per chi non ha quel briciolo di immaginazione sufficiente per ricostruire come possa essere avvenuto il disastro, fornirò la mia versione, tentando di descrivere le immagini che da questa mattina mi tormentano, mentre continuo a vivere la mia vita da giovane ragazza che ha avuto tutto.

Infatti, sono una persona molto fortunata: sono nata in una famiglia come tante altre, che mi ha assicurato un’infanzia serena materialmente e sentimentalmente. Ho avuto la possibilità di studiare, di lavorare, di coltivare le mie passioni, di viaggiare e di fare le vacanze al mare. Ho la possibilità di uscire la sera a bere qualcosa con i miei amici o a mangiare una pizza, tutti ragazzi come me. Ci sono alcune difficoltà, non sempre è tutto rose e fiori, ma in ogni caso so di avere qualcuno su cui contare o, almeno, un tetto sotto cui fare ritorno la sera.

Sono fortunata perché non troppo lontano da me (molto vicino in realtà, se si considera quanto sia facile e rapido raggiungere qualsiasi altra parte del mondo) la vita non va esattamente così. Posso solo immaginare cosa significhi nascere in un Paese senza speranze, senza garanzie, senza sicurezza. Nascere in una famiglia povera, restare orfani, non avere di che nutrirsi, vestirsi, non avere la possibilità di studiare o lavorare, non avere nemmeno la possibilità di passeggiare per strada tranquilli, sicuri che non accadrà nulla o che, se nella peggiore delle ipotesi accadrà qualcosa, ci sarà qualcuno pronto a intervenire, a soccorrere, a curare e garantire giustizia. Così inizia la storia di chi diventa un migrante. E non è una storia di vita, ma una storia di sopravvivenza. Perché solo chi lotta per la sopravvivenza e ormai non ha più nulla da perdere può trovare il coraggio di imbarcarsi su un peschereccio malandato, verso un Paese sconosciuto, lontano dalla propria Terra, dai propri affetti, dalla propria lingua e dalle proprie tradizioni. È una storia di donne, bambini, giovani come me. Come noi.

“Come noi, fratelli nostri” sono anche le parole di Papa Francesco, del quale non sono una grande fan, ma a cui non posso togliere di aver colto nel segno ciò che tanti non riescono a capire. Tanti che condividono su facebook citazioni di Madre Teresa di Calcutta, ma a cui proprio sfugge il concetto che “siamo tutti fratelli”. Ed è questo che sento il bisogno di urlare in faccia a chi da sta mattina osa esprimere sentimenti di sollievo o addirittura di gioia per una tragedia che è costata la vita a innocenti e disperati. Non riesco a chiudere gli occhi e la bocca di fronte a tanta indifferenza e crudeltà. Se non la morte e la sofferenza, cos’altro potrebbe mai scuoterci nel profondo e farci sentire umani, e, pertanto, sensibili alle sofferenze  di altri esseri umani?

Prima delle accuse al nostro Governo, prima degli appelli all’Unione Europea, prima ancora degli sforzi delle organizzazioni umanitarie che tentano ogni giorno di portare conforto ai pochi che sopravvivono alla attraversata in mare, ognuno di noi dovrebbe chiudersi in un minuto di silenzio. Non un minuto di silenzio di quelli istituzionali, ma un momento privato per immaginare cosa potrebbe significare per noi trovarsi in una situazione del genere. Un minuto in cui compatire, soffrire insieme ai bambini, alle donne e agli uomini  come noi che hanno perso la vita per inseguire un’ultima, misera speranza di sopravvivenza.  

Mi fa quasi sorridere doverlo ricordare, ma al di là della razza, del colore della pelle, della religione, della cittadinanza, siamo tutti esseri umani. Chi sputa veleno e specula sull’accaduto se ne è dimenticato, come si è dimenticato che la vita umana, di qualunque essere umano, è sacra, e la sua dignità è inviolabile. 

Henry Dunant, che ha assistito a Solferino a qualcosa di simile a ciò a cui assistiamo noi oggi, conclude, molto meglio di quanto sia in grado di fare io:


Gli uomini possono ancora combattersi, ma la loro vita è sempre sacra;  quando avvenga che la loro vita sia in pericolo, debbono sparire le inimicizie per salvare, in ognuno, la comune Umanità”.


Commenti